Quale immagine di chiesa sottostà alla esortazione apostolica Evangelii Gaudium? È una domanda che in molti si sono posti, e molti hanno intravisto dinamiche, prospettive, slanci, novità.
È fuori dubbio che Papa Francesco nella sua esortazione ha aperto una finestra creando una certa corrente d’aria destinata a far volare un po’ di polvere e tante carte sulle scrivanie.
Forse anche questa confusione creata dal colpo di vento coreografa l’«allegria» che proviene dal Vangelo che non è psicologica o emozionale: è la gioia di coloro che hanno incontrato il Signore che salva, si sono lasciati illuminare dalla sua parola, pacificare dalla misericordia, e si sono messi in moto per contaminare con la gioia la vita degli altri.
Lo sguardo di Bergoglio è certamente su una Chiesa «in uscita» (parola che ricorre 29 volte), questo, di fatto, sottende un Chiesa che il Papa vede oggi come chiusa. Addirittura parla di una «Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze ... una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (n.49).
C’è un aspetto, o forse una attenzione, che rimane alla periferia delle considerazioni ecclesiali, una porzione di Popolo di Dio che sfugge alla normalità delle attenzioni.
La Chiesa, che nei secoli si è strutturata territorialmente come tutta l’umanità tende ad essere, perde di vista tutti coloro che vivono l’esperienza della mobilità; un po’ per scelta, per cultura o per necessità. Sappiamo che il Papa ha ben presente il fenomeno migratorio, per la sua storia familiare e per una particolare sensibilità: «I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti» (n.210), parla di accoglienza e di affetto soprattutto per coloro che provengono dal mondo islamico (Cfr. n. 253). Sono affermazioni di grande importanza che meritano l’individuazione di impegni nuovi. Questa sensibilità del Papa ci fa scoprire nella esortazione una serie di affermazioni che aprono a tutti coloro il Concilio ricorda come persone che «a motivo delle loro condizioni di vita, non possono godere dell’ordinario ministero dei parroci o sono privi di qualsiasi assistenza» (CD 18). |
Una espressione ricorre nel ministero di Papa Francesco: la cultura dello scarto, che, parlando di economia, è presente anche nella esortazione: «Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”» (n.53).
Non c’è soltanto una emarginazione frutto di una economia malata, purtroppo ci sono anche emarginazioni sociali – di cui il sistema economico non è estraneo - che accompagnate da una sufficiente autonomia, se non floridezza economica, passano quasi inosservate. Si pensi al mondo dei naviganti, gli autisti di TIR, i circensi e i fieranti, gli ambulanti, persone che non hanno una stabilità territoriale e proprio per questo vivono la difficoltà delle relazioni con un mondo che li circonda, e dunque anche con la Chiesa, come si è detto strutturalmente territorializzata.
Nella esortazione Evangelii Gaudium ci sono, però, alcune considerazioni, delle intuizioni che potrebbero contenere stimoli per una attenzione pastorale a questi mondi nascosti.
La prima affermazione è proprio quella di «avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo» (n.20). Non ci sono periferie che non hanno bisogno della luce del Vangelo, ma ci sono periferie irraggiungibili per la particolare collocazione come una nave nell’oceano o una gabina di un TIR, o che non hanno il tempo di essere raggiunte come il circo o gli ambulanti del mercato stretti tra il viaggio e il lavoro. Per raggiungere queste periferie non basta il coraggio ma anche la fede nella potenzialità imprevedibile della parola «che è efficace a suo modo, e in forme molto diverse, tali da sfuggire spesso le nostre previsioni e rompere i nostri schemi» (n.22).
Pensare l’intimità della Chiesa con Gesù come un’intimità itinerante ci spinge ad esserci «in tutti i luoghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura» (n.23) anche se difficili da raggiungere, quello che dovrebbe preoccupare è solo il rischio di escludere qualcuno. «Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”» (n.24) e sicuramente in certi ambienti e situazioni il coinvolgimento è talmente necessario che il ministero ordinario non è sufficiente, o addirittura controproducente proprio per la delicatezza delle relazioni. Non che la Chiesa non abbia previsto un particolare servizio e coinvolgimento (Cfr. Can 518 e 568 CJC) ma certamente il monito del Papa immette stimoli nuovi arrivando a mettere in discussione «le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale» (n.27).
Il Papa manifesta preoccupazione per chi è stato battezzato e «non sperimenta la propria appartenenza alla Chiesa», anche per «un clima poco accoglienti in alcune delle nostre parrocchie e comunità» (n.63) - che per chi è solo di passaggio è un ostacolo maggiore – e che è fatto oggetto di particolare attenzione da parte di nuovi movimenti religiosi, fenomeno particolarmente evidente tra immigrati e nomadi.
«Uno sguardo di fede sulla realtà non può dimenticare di riconoscere ciò che semina lo Spirito Santo» (n.68) ed è particolarmente vero in certi ambiti raramente raggiunti da uomini di Chiesa, ma non dalla Grazia, in cui la Fede si manifesta in modo semplice, forse devozionale, certamente generoso che «bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine» (n.68). Però una «autentica fede nel Figlio di Dio fatto carne è inseparabile dal dono di sé, dall’appartenenza alla comunità, dal servizio, dalla riconciliazione con la carne degli altri» (n.88) per questo là dove si vive una concreta, obbligata separazione è necessario che sia la comunità a farsi prossima. In altre parole bisogna che le comunità cristiane si facciano compagne di strada di questi mondi viaggianti, provvisori, ma estremamente ricchi ed «imparare a scoprire Gesù nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste» (n.91). Vale la pena sottolineare, nell’azione di avvicinamento a questi mondi così particolari «una sensibilità, un’intuizione e certe capacità peculiari che sono solitamente più proprie delle donne che degli uomini» (n.103). |
Nel capitolo riguardante la predicazione è particolarmente significativa l’espressione del Pontefice: «La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo» (n.139). La cultura segnata dalla mobilità, dalla marginalizzazione, dal pregiudizio, dalla solitudine va conosciuta, apprezzata e amata perché diventi fonte di comunicazione. «Il predicatore deve anche porsi in ascolto del popolo, per scoprire quello che i fedeli hanno bisogno di sentirsi dire. Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo» (n. 154).
Dunque per conoscere e contemplare occorre accompagnare. «La Chiesa dovrà iniziare i suoi membri – sacerdoti, religiosi e laici – a questa “arte dell’accompagnamento”, perché tutti imparino sempre a togliersi i sandali davanti alla terra sacra dell’altro (cfr Es 3,5). Dobbiamo dare al nostro cammino il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione ma che nel medesimo tempo sani, liberi e incoraggi a maturare nella vita cristiana» (n.169). Di fronte all’uomo, alle famiglie, in mobilità bisogna maturare la necessità di accompagnare muovendosi.
«Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l'altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio. Come conseguenza di ciò, se vogliamo crescere nella vita spirituale, non possiamo rinunciare ad essere missionari» (n. 272). |